Giovanna Camurati è una ragazzina di tredici anni come tante altre, con l’avventura della crescita da affrontare e una timidezza che la spinge a scrutare il mondo da un’angolazione privilegiata, senza esserne travolta e senza essere vista. Giovanna ha una mamma e un papà come tanti altri, che, tra alti e bassi, tengono le redini di una famiglia un po’ speciale. Perché al centro di questa famiglia c’è la piccola Pulce, per gli altri Margherita, la sorellina di Giovanna. Pulce ha otto anni, va pazza per il tamarindo, la musica di Bach e il tango. Pulce non parla, perché è autistica, ma questo non significa che non sappia comunicare. Un giorno, però, la mamma va a prenderla a scuola e scopre che Pulce non c’è. È stata portata in una comunità: il padre è sospettato di avere abusato di lei.
È così che inizia l’incubo giudiziario, e non solo, di una famiglia già segnata dalla presenza di una malattia ingombrante, una malattia troppo spesso ignorata o travisata da chi non ci ha mai avuto a che fare. Fin dalle prime sequenze, emerge la netta contrapposizione tra la famiglia protagonista e gli altri. C’è un “noi” e un “loro” in questa vicenda. E la separazione tra i due mondi si allarga sempre più, man mano che l’ostilità reciproca aumenta. Ma anche prima che l’ombra del sospetto travolga ogni relazione con l’esterno, la famiglia Camurati è costretta a scontrarsi con la rigidità e la palese inadeguatezza di istituzioni che, a più livelli, non sanno sostenere la malattia, per mancanza di fondi, certo, ma soprattutto per scarsa preparazione e indifferenza. Così, come molte altre famiglie italiane che devono affrontare la disabilità, i Camurati sono lasciati soli, con il peso dell’handicap che ricade unicamente sulle loro spalle. Sopperiscono alle mancanze esterne con l’amore e l’accettazione.
Se per gli altri Pulce è un trattato di medicina, per Giovanna è la sorellina «anticonformista», che si ribella alle logiche imposte dall’esterno. Per Giovanna non c’è niente di più normale. Ciò che non è normale, e che non capisce, è l’accusa che distrugge la sua famiglia, portandole via l’amata Pulce. È attraverso i suoi occhi timidi e profondi che guardiamo a questa storia sconvolgente. Una storia vera, tratta dal libro scritto dalla Giovanna in carne e ossa, l’esordiente Gaia Rayneri, che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura. Rispetto al romanzo omonimo, il film di Giuseppe Bonito ha una struttura un po’ più corale, che alterna il punto di vista di Giovanna a quello della madre e del padre. Due modi diversi di reagire alla malattia prima e all’accusa poi: lei con l’ansia e l’emotività, lui con la chiusura e il distacco apparente. Due caratteri diversi, resi con verità dalle interpretazioni misurate di Marina Massironi e Pippo Delbono, bravi a tradurre un’incomunicabilità di coppia che sorprendentemente li avvicina anziché separarli. Ma il punto di osservazione privilegiato resta quello di Giovanna, trascinata suo malgrado in un problema molto più grande dei primi batticuori dell’adolescenza che affliggono la sua amica del cuore. È grazie al suo filtro che la vicenda, per quanto scottante, è raccontata con estrema sensibilità e pudore.